CASS.CIV.SENTENZA N. 23676 del 06/11/2014 - Le Sezioni unite, a composizione di contrasto, hanno escluso l’applicabilità dell’art. 230 bis cod. civ. ad una impresa gestita in forma societaria, di qualunque tipo essa sia (in www.italgiure.giustizia.it)

Data pubblicazione: Nov 29, 2014 7:45:49 PM

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L'impresa familiare è incompatibile con la struttura societaria. Così si sono pronunciate le Sezioni Unite Civili della Suprema Corte di Cassazione, nella sentenza 16 settembre - 6 novembre 2014, n. 23676. Nel caso in esame, il ricorrente aveva proposto un ricorso in Cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello di Torino, insistendo nel ritenere sussistente la compatibilità dell'impresa familiare con la forma societaria. Individuato un contrasto giurisprudenziale sulla compatibilità dell'impresa familiare con la configurazione societaria, la sezione lavoro della Corte di Cassazione, cui il ricorso era stato originariamente assegnato, lo rimetteva alle sezioni unite. In effetti, la mancata previsione testuale, nell'art. 230 bis cod. civ., dell'esercizio in forma societaria di un'impresa familiare, ha determinato non poche incertezze ermeneutiche. Secondo un primo indirizzo giurisprudenziale, trattandosi di una norma di natura eccezionale, non sarebbe ammissibile l'applicazione all'impresa in forma societaria in quanto frutto di una non consentita interpretazione analogica nell'ambito di una lacuna c.d. impropria. L’inapplicabilità dell'art. 230 bis cod. civ. all'impresa societaria è stata anche sostenuta dalla Corte di Cassazione, sez. lavoro, nella sentenza del 6 agosto 2003, n. 11881, secondo cui vi è l'esclusione di una compresenza di rapporti: l'uno fondato sul contratto di società tra il debitore e terzi soci; e l'altro derivante dal vincolo di subordinazione al primo di un suo familiare. A tali orientamenti si è contrapposta parte della dottrina che, riconoscendo nell'impresa familiare alcuni tratti associativi, estenderebbe la disciplina anche ad attività continuative di lavoro svolte dal parente o affine del beneficiario, partecipe di una società, anche con soggetti estranei al nucleo familiare: tutto ciò con le conseguenze patrimoniali indicate nell'art. 230 bis cod. civ., limitate alla sola quota di partecipazione (Cass., sez. lavoro, 23 settembre 2004, n. 19116; Cass., sez. lavoro, 19 ottobre 2000, n. 13861). Inoltre, ulteriori precedenti giurisprudenziali hanno ravvisato elementi dell'impresa familiare, rilevanti sotto il profilo della fattispecie: come ad esempio, la natura individuale dell'impresa familiare (Cass., sez. lavoro, 18 gennaio 2005, n. 874; Cass., sez. lavoro, 15 aprile 2004, n. 7223; Cass., sez. lavoro 6 marzo 1999, n. 1917) ed il regime fiscale reddituale dei familiari collaboratori (Cass., sez. 5, 2 dicembre 2008 n. 28558). Valutato il pregresso contrasto esegetico, la Suprema Corte ha aderito alla tesi dell'incompatibilità dell'impresa familiare con la disciplina delle società. Innanzitutto, tra i criteri legali, è prevalso quello letterale così come riconosciuto dalla giurisprudenza prevalente (Cass., sez. 3, 21 maggio 2004, n. 9700; Cass., sez. lavoro, 13 aprile 1996, n. 3495; Cass., sez. lavoro, 17 novembre 1993, n. 11359; Cass. sez. lavoro 26 febbraio 1983, n. 1482). In effetti, da un esame letterale della disposizione esaminata, si evince la scelta del legislatore di utilizzare la parola “impresa", di carattere oggettivo, piuttosto che far riferimento all'imprenditore come soggetto obbligato. Ciò che dimostra l’incompatibilità tra le due fattispecie è la disciplina patrimoniale relativa alla partecipazione del familiare agli utili, ai beni acquistati con essi, ed agli incrementi dell'azienda, in base al lavoro prestato, anche al di fuori dell'impresa: e non, quindi, in proporzione alla quota di partecipazione. Se in una società di persone, il socio ha un vero e proprio diritto agli utili ed incrementi, nella società di capitali c’è solo un’aspettativa, un’eventualità, poiché in questo caso, il socio non può reclamare alcun diritto sui beni o sugli incrementi aziendali, in quanto la distribuzione degli utili dipende da una delibera assembleare o da una decisione dei soci (art. 2433 c.c. e art. 2479 c.c., comma 2, n. 1). Assume rilievo anche il conflitto sussistente tra la disciplina prevista per l’impresa familiare e le regole imperative del sottosistema societario. In particolare, tale contrasto emerge se si considerano i diritti corporativi estesi al familiare del socio, il quale può prendere parte alle decisioni riguardanti l'impiego degli utili, degli incrementi, nonché la gestione straordinaria, gli indirizzi produttivi, ed addirittura la cessazione dell'impresa stessa. Tali disposizioni sono in palese contrasto con quelle che regolano le società, in cui le modalità di assunzione all'interno di un gruppo societario, sono riservate agli amministratori o ai soci, in forme e secondo competenze distintamente previste, in funzione del tipo societario, ma accomunate nell'esclusione di soggetti estranei alla compagine sociale. Tale conclusione è avvalorata dal criterio teleologico. A tal proposito, si evidenzia che l'istituto dell'impresa familiare, come si evince dall'art. 230 bis cod. civ. "salvo che sia configurabile un diverso rapporto”, è residuale rispetto ad ogni altro tipo di rapporto negoziale configurabile. Pertanto, nel caso sussista un rapporto negoziale tipizzato, la disciplina sussidiaria dell'impresa familiare deve intendersi come recessiva, nel sistema di tutele, qualora non serva a colmare un vuoto normativo. Infine, non è condivisibile la teoria sostenuta da parte della dottrina, secondo la quale si dovrebbero applicare le regole dettate per l'impresa familiare in modo selettivo, destrutturando la norma, mantenendo un nucleo di applicazione necessaria, ed il restante complesso di poteri di natura accessoria ed eventuale, nell'esclusivo ambito di un'impresa individuale. Si tratterebbe di mutilare la norma nella parte in cui si riveli inconciliabile con il sottosistema societario, per preservarne l'applicazione in parte in favore del familiare del socio. Alla luce delle suesposte argomentazioni, il Supremo Consesso ha rigettato il ricorso proposto e compensato tra le parti le spese di giudizio.

(Altalex, 17 novembre 2014. Nota di Maria Elena Bagnato)

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Manca, nel testo di cui all’art. 230 bis c.c. (impresa familiare), la previsione dell’esercizio in forma societaria dell’impresa familiare. Il silenzio della norma ha portato, nel tempo, ad orientamenti giurisprudenziali contrapposti e soluzioni ermeneutiche discordanti. Ripercorrendo il pregresso contrasto esegetico nei suoi tratti essenziali, le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza in commento, hanno aderito alla tesi della incompatibilità della impresa familiare con la disciplina delle società di qualunque tipo: l’istituto dell’impresa familiare è inapplicabile in tutti i casi in cui l’impresa sia gestita in forma societaria, di qualunque tipo; con tutte le conseguenze di tipo patrimoniale, partecipative, di tutela del lavoro, etc.